Ciao a tutti,
mi chiamo Serena e ho 45 anni.
Voglio raccontare la mia storia, sperando possa essere di supporto a molti.
Questa storia risale a circa 20 anni fa, quando, appena ventenne, decisi di cercare un lavoro dopo il diploma: volevo iniziare ad essere indipendente.
Premetto che mi sono diplomata al liceo classico con fatica, ma solo perché lo volevano i miei genitori, non perché mi piacesse. Loro desideravano che mi iscrivessi all’università, ma io lo consideravo uno spreco di tempo.
Iniziai a lavorare come cameriera in un ristorante, ma l’idea di essere “la sguattera” che serve, lava i piatti, sta dietro il bancone del bar e aiuta il cuoco, mi faceva andare a lavoro già demotivata. Sopportai questo lavoraccio per due anni, ma dentro di me sapevo che meritavo qualcosa di meglio.
Nel 2000 aprì un piccolo call center nella mia città e l’idea di mandare un curriculum mi stuzzicava: avrei avuto una sola mansione, lavorato seduta e finito a orari normali. Non sarei più rimasta chiusa in un locale dalle 7:30 del mattino fino alle prime luci dell’alba, senza giorni di riposo o festività.
Mi feci coraggio e inviai il curriculum, anche se non nutrivo molte speranze: mezza città aveva presentato la candidatura e, figuriamoci, se una come me, giovane e senza esperienza, sarebbe stata scelta.
L’ansia e il rammarico:
Passarono due anni. Ormai avevo perso ogni speranza di lasciare quel posto infernale: mi vedevo già vecchia lì dentro, a fare la tuttofare per pochi spiccioli.
Ma ecco che arriva la chiamata dall’agenzia!
Accettai subito di fare una prova ed ero emozionatissima.
Il primo giorno di lavoro feci un colloquio con due ragazze che sembravano grandi donne di carriera. Mi sentivo come catapultata in un film americano, in un ufficio dove tutti camminano veloci, ti parlano senza guardarti negli occhi e, mentre conversano, fanno quaranta cose diverse. Ammetto che quella frenesia mi affascinava, e avrei voluto essere come loro. Ma…
Dopo il colloquio entrai in uno stanzone dove tanti operatori, seduti davanti alla scrivania con le cuffie, parlavano al telefono con disinvoltura:
“Buongiorno signora/signore, mi chiamo…
La contatto per conto di…, vedo che lei non è ancora cliente e stiamo chiamando per annunciare che la nostra azienda è arrivata in città.
Stiamo portando notevoli benefici e miglioramenti e vorremmo informarla. Entrare a far parte della nostra azienda le porterà vantaggi come…
Non la sto contattando per farle firmare un contratto, ci mancherebbe! Vorremmo solo che incontrasse un nostro consulente, che verrà a casa sua senza impegno, brochure alla mano.
Potrà decidere liberamente e fare tutte le domande che desidera. Le andrebbe bene il mattino o il pomeriggio?
Ok, il nostro consulente Nome e Cognome sarà da lei il giorno…, e se ha bisogno di contattarlo, il suo numero è…
La ringrazio e le auguro buona giornata.”
Dopo aver ascoltato queste chiamate, confesso che mi venne un nodo allo stomaco: pensavo che non sarei mai riuscita a diventare così brava!
Il primo giorno:
Mi diedero un volantino con il testo da leggere (quello sopra) e un altro con le risposte alle obiezioni più comuni (“non mi interessa”, “non mi fido”, ecc.).
Fui affiancata da una ragazza molto carina ed esperta, e davanti a me avevo un grande libro pieno di numeri di telefono, nomi, indirizzi e un piccolo spazio per annotare le note.
Il mio stipendio era un fisso mensile di pochi Euro, più un compenso per ogni appuntamento fissato con i consulenti. Così iniziai a capire che, se volevo guadagnare di più, dovevo impegnarmi davvero.
Il cambiamento:
Un mese dopo, iniziai un corso aziendale su comunicazione e gestione delle chiamate. E cominciai ad appassionarmi a quel lavoro.
Con i colleghi andavo d’accordo con tutti, ci supportavamo volentieri. Se qualcuno non riusciva a fissare appuntamenti, ci davamo una mano con i contatti più sicuri. Si scherzava e si lavorava in armonia.
Tranne con una: Anna.
Anna stava sempre sulle sue. Si credeva la responsabile, alzava la voce come se fosse lei a gestire tutto. Devo ammettere che era brava e prendeva più appuntamenti di noi, ma la sua presenza metteva soggezione. Ricordo che una volta, sbagliando una chiamata, mi prese a male parole. Rimasi impietrita davanti al telefono, tremavo ogni volta che dovevo comporre un numero.
Passarono due anni. Il personale cambiava spesso, ma io ero ancora lì!
Anche Anna, purtroppo.
Qualche volta alzai la voce anch’io con lei, lo confesso, solo per ricordarle che, se aveva qualcosa da dire, poteva rivolgersi al responsabile o al titolare.
Poi accadde qualcosa…
Il titolare ci convocò per dirci che il lavoro stava calando e non si potevano più permettere il personale esterno, soprattutto gli agenti/consulenti.
Ci dispiacque molto. Tranne Anna, noi altri provammo a trovare una soluzione. Proponemmo di gestire sia le chiamate che gli appuntamenti. Il titolare accettò.
Fu un periodo divertente:
macinavamo appuntamenti non solo per guadagnare, ma anche per avere la scusa di uscire e andare in giro.
Eravamo bravi a chiudere i contratti, ci sentivamo padroni del mondo!
Anna, però, non avendo la patente (o per altri motivi), rifiutò la nuova mansione. Restò alla scrivania a fare chiamate e la “maestrina”. A noi andava bene, perché era davvero efficace al telefono.
Il fallimento:
Dopo tre anni, l’azienda fallì. Ricordo ancora il dolore nel cuore. Non eravamo più padroni del mondo.
Il lavoro continuò sotto la direzione dei supervisori (cioè i “titolari dei titolari”), ma non era più la stessa cosa.
L’entusiasmo era sparito e si respirava solo paura per il futuro.
Un giorno Anna ebbe un’altra delle sue crisi di nervi.
Io, che ormai non avevo più niente da perdere, le dissi tutto quello che avevo tenuto dentro per cinque anni: le invidie, le cattiverie, i dispetti, il suo atteggiamento da superiore.
I miei ex colleghi però rimasero in silenzio. Preferivano stare zitti, incassare gli ultimi stipendi e sperare che i supervisori tenessero aperta l’azienda.
Poco dopo arrivarono i supervisori, sentendo le urla.
Senza spiegazioni, mi allontanarono.
Mi sbatterono fuori dalla porta.
Giuro che non ho mai pianto tanto in vita mia.
Mi sembrava tutto finito.
Mi odiavo.
Avrei dovuto continuare a subire.
Passai una settimana chiusa in casa. Poi un giorno, ricevetti una telefonata: volevano vedermi in azienda.
La rivincita:
Pensai che fosse per l’ultimo assegno, per la liquidazione.
Invece, il supervisore — un uomo altissimo, in giacca e cravatta, che incuteva timore — mi accolse con un sorriso.
L’azienda era vuota. Silenziosa. Un colpo al cuore.
Niente più risate, rimproveri, suoni di tastiere.
Entrai nel suo ufficio in silenzio.
“Serena,” disse, con tono serio. Mi aspettavo un rimprovero.
“In realtà l’ho convocata perché ho avuto modo di osservare il suo lavoro.
Vorrei sapere se è disposta a trasferirsi nella sede principale (a un’ora di macchina), perché ci piacerebbe che continuasse come consulente.”
Rimasi pietrificata.
“Non deve decidere subito,” aggiunse.
“Ma voglio dirle che avrà un’auto aziendale e tutti i benefit previsti.
Lei e i suoi colleghi avete dimostrato di avere a cuore il nome della nostra azienda. Non possiamo permetterci di perdere consulenti così validi.”
Accettai senza esitare.
Dopo tre mesi, cominciammo a lavorare nella sede centrale.
Non dovevamo più telefonare.
Avevamo un nostro ufficio per i briefing.
La stessa voglia di conquistare il mondo.
Supervisori che ci davano libertà, pur chiedendoci professionalità.
Ora sono passati 20 anni.
Quel gruppo non esiste più:
Chi ha un contratto a tempo indeterminato,
chi ha aperto un locale,
chi è diventata mamma.
E poi ci sono io.
Ogni mattina varco quella porta, da supervisore.
Sì, devo mantenere un certo contegno…
Ma lascio carta bianca ai ragazzi.
Perché adesso il mondo è sotto i loro piedi.
A proposito di Anna…
Non abbiamo più avuto contatti.
Non ha voluto accettare il trasferimento.
E non sappiamo che fine abbia fatto.
Spero che il mio racconto vi sia piaciuto e che vi dia un po’ di grinta nei momenti difficili.
Con affetto,
Serena
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